Archive for the ‘titoli’ Category

Dentro al nero

23 ottobre 2017

ottobre 2017

«Sei già stato qui».

Aa. Vv.
Dentro al nero
Tredici sguardi su It di Stephen King
a cura di Luca Cristiano ed Enrico Macioci
i Fiammiferi

Tredici Fedeli Lettori hanno provato a rileggere It di Stephen King a trent’anni dalla sua (è proprio il caso di dirlo) apparizione.
Enrico Macioci, Dario Rossi, Nicola Manuppelli, Paola Barbato, Marco Peano, Cristò, Francesca Schipa, Deborah Donato, Demetrio Paolin, Marco Candida, Giuseppe Martella, Giusi Marchetta e Luca Cristiano ci riportano a Derry, a vedere che aria tira da quelle parti tra fede e magia, tempo e scandalo, mito e pop, archetipi e psicoanalisi, infanzia e biciclette.
It ancora ci atterrisce e ci consola, mostrandoci cosa significa lasciare il blu ed entrare nel nero, ma non del tutto, perché si ricorda, si rivive, si riscopre un libro che ci ha tolto il fiato e ci si ritrova davanti alle fondamenta del nostro immaginario.

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Finché arrivano lettere d’amore

23 ottobre 2017

ottobre 2017

Helga M. Novak
Finché arrivano lettere d’amore
Poesie 1956 – 2004
Traduzione di Paola Quadrelli
le Meteore

solange noch Liebesbriefe eintreffen
ist nicht alles verloren
solange noch Umarmungen und Küsse
ankommen und sei es in Briefen
ist nicht alles verloren

finché arrivano lettere d’amore
non tutto è perduto
finché mi raggiungono abbracci
e baci seppure per lettera
non tutto è perduto

È questa la prima antologia italiana della lirica di Helga M. Novak, qualificata dal poeta e chansonnier tedesco-orientale Wolf Biermann come «la maggiore poe tessa della DDR». Intensamente legata alla esperienza autobiografica, contrassegnata da un doloroso destino di figlia adottiva, dall’espatrio dalla DDR nel 1966 e da una esistenza errabonda, la vasta produzione poetica della Novak si distingue per una notevole varietà formale, ritmica e contenutistica, testimoniata nel presente volume dall’alternarsi di ballate di sapore popolare, apologhi di marcata attualità politica, lamenti d’amore, invocazioni struggenti, composizioni di soggetto storico e mitologico e, soprattutto, splendide poesie dedicate alla natura, in cui paesaggi coperti da antiche foreste e punteggiati di laghi vengono evocati con precisione naturalistica e forza visionaria.

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Helga M. Novak (pseudonimo di Helga Maria Nowak) nacque a Berlino-Köpenick nel 1935 e crebbe a Erkner nei pressi di Berlino in una famiglia adottiva da cui si distaccò appena quindicenne per frequentare un collegio per la formazione di quadri del Partito socialista unitario. La giovane entrò tuttavia assai presto in conflitto con le autorità della DDR: dapprima costretta a interrompere gli studi universitari a Lipsia fu quindi privata della cittadinanza nel 1966 per «sentimenti antisocialisti». Nei decenni successivi visse a Francoforte sul Meno e a Berlino Ovest, soggiornando tuttavia a lungo in diversi Paesi, tra cui l’Islanda, la Jugoslavia, la Spagna, il Portogallo della rivoluzione dei garofani, la Polonia di Solidarność, gli Stati Uniti. Nel 1989 si stabilì infine in una località nella brughiera di Tuchel, nella Polonia settentrionale. Oltre a dieci raccolte di poesie, insignite di numerosi premi, Helga M. Novak è autrice di radiodrammi, prose, racconti e di romanzi autobiografici che ottennero una vasta eco nella Germania federale dei primi anni Ottanta: Die Eisheiligen e Vogel federlos (Volava un uccello senza piume, Giunti 1990). L’ultimo volume della trilogia autobiografica, intitolato Im Schwanenhals, è uscito nel 2013 ed è incentrato sugli anni universitari, sovrastati dalla onnipresente Stasi, la polizia segreta della DDR. Helga M. Novak è morta a Rüdersdorf, presso Berlino, nel 2013.

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Il geografo e il viaggiatore

11 settembre 2017

ottobre 2017

Si scrive perché si studia. Si studia perché si ama. Si ama perché si immagina. Tutto il resto è informazione o chiacchiera

Massimo Rizzante
Il geografo e il viaggiatore
Lettere, dialoghi, saggi e una nota azzurra sull’opera di Italo Calvino e di Gianni Celati
Saggi e documenti

Questo libro smisuratamente breve, scritto in un periodo smisuratamente lungo, è un libro sull’amicizia tra Calvino e Celati.
Ma anche sull’amicizia come forma, forse l’ultima, in grado di renderci più vicini a noi stessi e più in dialogo con il mondo, meno sentimentali e più sensibili.
Il geografo Calvino e il viaggiatore Celati, per quanto diversi, sono accomunati da quella vena artistica che, nata agli inizi dei Tempi Moderni, ha segnato un po’ controcorrente fino al XX secolo la nostra civiltà letteraria fondata sulla dura legge della mimesis.
Si tratta di quello humour che Thomas Carlyle, parlando di Ariosto, di Cervantes, di Sterne e di Jean Paul definisce: «il prodotto non del disprezzo ma dell’amore, non della deformazione superficiale delle forme naturali, ma di una profonda quanto piacevole simpatia nei confronti di tutte le forme della Natura».
Entrambi, ciascuno a suo modo, il viaggiatore con cambi umorali più erranti, il geografo con cambi di passo più lineari, hanno attraversato i generi, non hanno mai fatto finta che il lettore non esistesse, non si sono mai arresi al vizio della trama, hanno mostrato senza affettazione i capricci dei loro procedimenti, hanno riflettuto sulla loro opera e su quella altrui diffidando sempre delle definizioni.
Entrambi spiriti malinconici nati sotto l’influenza di Saturno, sono figli dello humour, di quello cervantino come di quello ariostesco, di quello che traspare nelle opere di Giordano Bruno, nella Scienza nuova di Giambattista Vico o nella prosa di Leonardo e Galilei, di quello del Leopardi delle Operette morali e dello Zibaldone, come di quello che si incontra nelle passeggiate di Robert Walser e Raymond Queneau o nei quaderni di Paul Valéry.

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Massimo Rizzante (1963) è poeta, saggista e traduttore.
Ha fatto parte dal 1992 al 1997 del “Seminario sul romanzo europeo” diretto da Milan Kundera a Parigi. Insegna all’Università di Trento.
Ha pubblicato le raccolte di poesia Lettere d’amore e altre rovine (1999), Nessuno (2007), Scuola di calore (2013) e Una solitudine senza solitudine (2020) e i saggi Non siamo gli ultimi (2009), Un dialogo infinito (2015), Il geografo e il viaggiatore (2017) e L’albero del romanzo (2018).
Per Adelphi ha tradotto Il sipario (2005), Un incontro (2009) e La festa dell’insignificanza (2013) di Milan Kundera e O. V. de Milosz, Sinfonia di novembre e altre poesie (2008).
Ha curato: M. Crnjanski, Lamento per Belgrado (2010), H. Broch, I sonnambuli (2010), Scuola del mondo. Nove saggi sul romanzo del XX secolo (2012), N. Kachtitsis, Punto vulnerabile (2012), O. Lamborghini, Il dottor Hartz e altre poesie (2012), Th. G. Pavel, Le vite del romanzo (2015), R. Piglia, Critica e finzione (2018), M. Torga, La vita inedita. Diario Antologia 1933-1993 (2020), J. Goytisolo, Esiliato di qua e di là (2014, 2021), L. Mumford, Le trasformazioni dell’uomo (2021) e A. Carpentier, L’età dell’impazienza. Saggi, articoli, interviste 1925-1980 (2022).
Dirige le collane “Elit” e “Saggi letterari” presso la casa editrice Mimesis e la collana “Biblioteca di poesia” presso la casa editrice Metauro. Collabora con le riviste letterarie “L’Atelier du roman” e “Letras Libres”.
massimorizzante.com

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Caddi e rimase la mia carne sola

8 settembre 2017

ottobre 2017

Lo portarono incatenato in paese: aveva il viso ridotto a una maschera di polvere rigata di sudore e sangue, i panni laceri. Un santecceòmo.

Laura Pariani
Caddi e rimase la mia carne sola
le Stellefilanti romanzi

Il 7 ottobre 1967 Ernesto Che Guevara resta imbottigliato con un piccolo gruppo di guerriglieri in una quebrada della foresta.
Consegnatosi ai soldati, il Che viene trasportato nel vicino paesino di La Higuera dove è rinchiuso nel locale della scuola.
Il 9 ottobre a un soldato scelto a sorte tocca il compito di uccidere il ferito, il cui cadavere viene poi trasportato all’ospedale di Vallegrande per essere mostrato a fotografi e giornalisti.
Questi fatti della Grande Storia sono qui raccontati attraverso le parole degli abitanti di una delle zone più povere del mondo: i vecchi impauriti dalla propaganda della radio che dipinge i guerriglieri come violenti “senza Dio”; i soldati contadini che si aspettano il premio per la cattura del “gringo importante”; la maestra che frequenta poco i libri; il telegrafista che non ha mai avuto così tanto lavoro; la curandera che cerca di accompagnare il prigioniero nel suo viaggio verso il mondo dei morti.
Da quel momento nell’immaginario popolare è fiorito il culto di Sant’Ernesto di La Higuera, con tanto di preghiere, ex-voto per i miracoli compiuti e leggende (tra cui quella della vendetta divina che ha colpito tutti coloro che furono implicati nella morte del Che).

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Laura Pariani (1951) vive a Orta San Giulio.
Si è dedicata dagli anni Settanta alla pittura e al fumetto; dagli anni Novanta soprattutto alla narrativa: Di corno o d’oro (Sellerio 1993), Il pettine (Sellerio 1995), La spada e la luna (Sellerio 1995), La perfezione degli elastici (e del cinema) (Rizzoli 1997), La Signora dei porci (Rizzoli 1999), Il paese delle vocali (Casagrande 2000), La foto di Orta (Rizzoli 2001), Quando Dio ballava il tango (Rizzoli 2002), L’uovo di Gertrudina (Rizzoli 2003), La straduzione (Rizzoli 2004), Il Paese dei sogni perduti (Effigie 2004), Tango per una rosa (Casagrande 2005), Patagonia Blues (Effigie 2006), I pesci nel letto (Alet 2006), Ghiacciofuoco (con Nicola Lecca, Marsilio 2006), Dio non ama i bambini (Einaudi 2007), Milano è una selva oscura (Einaudi 2010), La valle delle donne lupo (Einaudi 2011), Le montagne di don Patagonia (Interlinea 2012), Il piatto dell’angelo (Giunti 2013), Nostra Signora degli scorpioni (insieme a Nicola Fantini, Sellerio 2014), Il nascimento di Tònine Jesus (Interlinea 2014), Questo viaggio chiamavamo amore (Einaudi 2015), Per me si va nella grotta oscura (Didattica attiva 2016), Che Guevara aveva un gallo (Sellerio 2016), “Domani è un altro giorno” disse Rossella O’Hara (Einaudi 2017).
Ha all’attivo una ventina di opere teatrali rappresentate in Italia e all’estero.
Ha partecipato alla sceneggiatura di Così ridevano di Gianni Amelio, Leone d’oro 1998 alla Mostra del cinema di Venezia.

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Notturno buffo

7 settembre 2017

settembre 2017

La profonda virtù consolatoria del gelato di fronte alle grandi derive della vita non è sgualcita nemmeno dal fatto che noi con il gelato ci lavoriamo e spesso ci viene a noia.

Giorgio Mascitelli
Notturno buffo
il Regisole

Qual è la verità poetica di un gelataio in preda a dilemmi esistenziali o di un antiquario precario o di un postino in fuga dai cani di ville pretenziose?
I racconti di Notturno buffo mettono in scena situazioni comiche che derivano dalla malinconia delle vite ultramoderne dei loro personaggi. I tic della nostra società qui rappresentati in maniera straniata e divertita sono per noi occasione di un sorriso, ma diventano per i protagonisti un fardello tanto insopportabile quanto ridicolo.
Ecco allora un fiorire di disavventure e di catastrofi minime che punteggiano le esistenze improbabili, eppure tipiche del postino, del gelataio e di tanti altri ancora. Eppure questo campionario di un’umanità stramba e un po’ balenga non è nient’altro che l’immagine deformata, come se fosse riflessa da uno specchio ammaccato e incrinato dopo un trasloco frettoloso, di quello che rischieremmo di diventare noi a seguire le regole, esplicite o sottointese, di questo nostro tempo.

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Giorgio Mascitelli (1966) ha pubblicato i romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e la raccolta di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Il racconto Piove sempre sul bagnato (2008) è apparso in volume autonomo. Il compositore Giovanni Cospito ha tratto dal suo racconto Ancora un Incendiario?! l’omonimo spettacolo musicale (2002). Attualmente è redattore dei blog culturali Alfabeta2 e Nazione Indiana.

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Lingua d’acqua comune

6 settembre 2017

settembre 2017

Vado a prenderti l’acqua del pozzo
o vuoi quella della cannella
sul colle della piazza?
Prendi un cucchiaio di miele d’acero
oscilla
se vuoi oscillare.

Walter Rossi
Lingua d’acqua comune
le Ginestre

Le parole di Walter Rossi ci fanno volare, sembra che si cammini sulla terra ma all’improvviso si prende il volo, siamo nel segreto, nel mistero della poesia autentica, vera.

Roberto Carifi

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Walter Rossi (1964). Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesia: Oltremare (Edizioni della Meridiana, 2000), Genitivo Diacronico (Edizioni della Meridiana, 2002), Quaranta sedie (Edizioni della Meridiana, 2004), Cassarmonica (Moretti & Vitali, 2010), Erfahrung (SEF Società Editrice Fiorentina, 2012), Vita, giustizia degli occhi miei (SEF Società Editrice Fiorentina, 2013).

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Come della rosa

26 aprile 2017

maggio 2017

Tu lo sapevi che saremmo arrivati qui, Mama: che per morire consapevolmente sarei dovuto uscire dall’inferno e rientrare nella vita

Tiziana Rinaldi Castro
Come della rosa
le Stellefilanti romanzi

Se Emiliano Westwood è di fronte al bivio più pericoloso della sua vita di mercante d’armi e guerrigliero, Bruna Di Michele, fotografa freelance, è di fronte a quello più delicato: risalire il baratro dell’alcol, ritrovare il centro, per sé e per sua figlia. Adebambo, sacerdotessa yorùbá, li accoglie nel suo tempio ad Harlem per assisterli nel loro percorso, ma con una richiesta uguale per entrambi: «Raccontami un’altra storia». E allora ecco che Dioniso, Elegbara, Parsifal e il Re Pescatore fanno luce sul passato dei due giovani, gli scardinano i segreti, e richiamandoli l’uno all’altra, li sprofondano fino alla radice dell’amore impossibile che li unisce, e che li spingerà verso destini ineluttabilmente divergenti. Ma «la storia più bella non è stata ancora raccontata» promette Ade- bambo, ed Emiliano e Bruna continuano a cercare: in una New York disordinata e cruda alla fine degli anni Ottanta; nella casa d’origine, in Italia; nel Salvador lacerato dalla guerra civile, e nel deserto del Nuovo Messico, solo apparentemente svuotato d’ogni segno.

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Tiziana Rinaldi Castro (Sala Consilina, 1965), vive negli Stati Uniti dal 1984. Si è laureata alla New York University in Cinema e poi in Studi Interdisciplinari in Religioni Africane e Sciamanesimo. Iniziata al culto yorùbá nella comunità Lucumì di New York, ne è sacerdotessa dal 1991. Insegna Letteratura greca antica alla Montclair State University e si divide fra Brooklyn, dove vive con il marito e le figlie, e le montagne del sud est del Colorado. Presso le Edizioni E/O ha pubblicato i romanzi Il lungo ritorno (2001) e Due cose amare e una dolce (2007).

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Tomàs

23 dicembre 2016

gennaio 2017

La Città bruciava. Molti cercarono rifugio nel vecchio porto. Come formiche si caricavano sulle spalle tutto quello che potevano. Anche i vecchi e i bambini.
Ogni tanto si fermavano per raccogliere qualcosa, ma senza mai voltarsi indietro.

Andrea Appetito
Tomàs
le Stellefilanti romanzi

In una città sul mare il sogno di un autocrate ambizioso e senza scrupoli sta per realizzarsi. L’apparizione di una nave misteriosa segna l’inizio di un’ondata di violenza che scuote la città fino alla sua distruzione. Sette personaggi ne raccontano gli ultimi eventi con punti di vista diversi. Ciò che li accomuna è il loro rapporto con Tomàs, un ragazzo scomparso all’improvviso proprio dopo l’apparizione della nave. Tomàs è il tassello mancante di una trama che vede coinvolti il passato dell’autocrate e l’organizzazione dei suoi oppositori. Sullo sfondo, una storia d’amore perduto dai risvolti inquietanti…

Andrea Appetito (Roma, 1971) ha pubblicato Cluster Bomb (Altrastampa edizioni, 2002) e partecipato a un’antologia di racconti sulla città di Roma intitolata Allupa allupa (DeriveApprodi, 2006).
Ha scritto L’eredità, un testo teatrale tradotto in portoghese e messo in scena a Rio de Janeiro (2006).
Ha realizzato, insieme a Christian Carmosino, alcuni cortometraggi e il film-documentario L’ora d’amore, in concorso al III Festival Internazionale del Film di Roma (2008).
Con Gianluca Solla ha scritto Senza nome, un breve saggio tradotto in spagnolo e pubblicato nel libro collettivo El impasse de lo politico (Bellaterra, 2011).
E’ autore, insieme a Cosimo Calamini e Christian Carmosino, della sceneggiatura Emma e Maria finalista del Premio Solinas (2014).
È presente nell’antologia Sorridi: siamo a Roma (Ponte Sisto, 2016).

Andrea Appetito, maggio 2019
Vietato calpestare le rovine
racconti

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Ventriloquio della crisi

23 dicembre 2016

gennaio 2017

Roberta Salardi
Ventriloquio della crisi
il Regisole narrativa
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La voce narrante di una vecchietta arteriosclerotica racconta in un flusso quasi inarrestabile a un coro di pensionati ascoltatori e commentatori le alterne vicende di figli e nipoti fra squarci umoristici e visioni drammatiche dell’Italia di questi anni.
Ne risulta un confronto con la storia del presente espresso in un linguaggio teso come un elastico, pieno di contorsioni, lapsus, trasgressioni, improvvisi abbassamenti e innalzamenti di senso, con continui slittamenti di piano dalla narrazione della vita vissuta al discorso mediatico che l’avvolge e stravolge, restandone a sua volta variamente rimasticato e triturato.

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Poesie

1 dicembre 2016

dicembre 2016

Christine Lavant
Poesie scelte da Thomas Bernhard
Traduzione di Anna Ruchat
le Meteore

So bin ich Haus und Hof und Brotgerüst
und manchmal auch ein ganz geheimer Hügel,
wo meine Feindsal dunkle Trauben trägt,
damit die Heiligen Zigeuner werden.

Così io sono casa e corte e impalcatura del pane
e a volte anche una segretissima collina
dove la mia ostilità produce frutti oscuri
affinché i santi possano diventare zingari.

Questo libro propone una scelta di poesie – finora inedite in Italia – tratte dalle quattro principali raccolte dell’austriaca Christine Lavant.
Nel 1987 Thomas Bernhard, che stava curando la silloge, scrisse al suo editore tedesco: «La nostra poetessa è tra le più interessanti e merita di essere conosciuta nel mondo intero».

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Christine Lavant (pseudonimo, di Christine Habernig-Thonhauser) era nata a St. Stefan, nella valle del Lavant, il 4 luglio 1915.
Ultima di nove figli di una poverissima famiglia carinziana, iniziò a scrivere molto presto ma pubblicò solo a partire dal 1948 (il racconto lirico Das Kind), fissando subito la sua tematica su persone umili e diseredate, come dimostrano anche i successivi Das Krüglein (1949), Baruscha (1952), Die Rosenkugel (1956), Das Ringespiel (1963), Nell (1969).
Compose, con accenti del tutto spontanei, raccolte di poesie, inizialmente sotto l’influsso di Rilke, poi sempre in progressiva autonomia, cioè sempre più elementari ed essenziali (Die unvollendete Liebe, 1949; Die Bettlerschale, 1956; Spindel im Mond, 1959; Der Pfauenschrei, 1962; Hälfte des Herzens, 1966).
Fin dal 1954 i suoi libri sono insigniti di premi e riconoscimenti.
Christine Lavant muore il 7 giugno 1973.

Il mio destino si è separato da me
di Roberto Galaverni
Non ci si poteva probabilmente augurare l’edizione italiana di un poeta migliore. Ci riferiamo a Christine Lavant, di cui è appena stata pubblicata una raccolta antologica, Poesie, nella traduzione di Anna Ruchat (Effigie). Il volume ripropone la scelta approntata nel 1987 per un’edizione tedesca nientemeno che da Thomas Bernhard, che intendeva così rendere giustizia al valore di queste poesie, nonché all’inusuale integrità e insieme al radicalismo della vicenda esistenziale e artistica della scrittrice austriaca. «Si tratta — aveva chiarito Bernhard — della testimonianza elementare di un essere umano strapazzato da tutti gli spiriti celesti, un essere umano, che altro non è se non grande letteratura, meno conosciuta nel mondo di quanto meriterebbe».
A trent’anni di distanza, tutte queste ragioni possono essere riprese alla lettera. Il suo cognome da ragazza in realtà era Thonhauser, mentre lavarti è lo pseudonimo adottato da Christine in omaggio alla valle della Carinzia in cui era nata nel 1915 (morirà nel 1973). Ultima dei nove figli di una famiglia estremamente povera, fin da subito molto malata — «smilza e avida di miracoli», come dirà in un suo verso —, è stata un’autodidatta, a cominciare dalla folgorazione ricevuta dalla lettura di Rilke, che poi resterà sempre il suo riferimento più importante.
Rispetto alla letteratura in lingua tedesca è comunque un’austriaca del Sud, un’appartata, una meridionale. E anche se a quest’aspetto si legano alcune peculiarità divenute quasi una piccola leggenda, non c’è dubbio che la Carinzia intrida in profondità i suoi versi: il senso di separatezza, l’educazione cattolica fortemente conservatrice, la Bibbia, le preghiere, le tradizioni e le pratiche di un mondo contadino arcaico, i canti e i detti popolari, la credenza nei sogni, la percezione animistica del mondo creato, quasi ai limiti della stregoneria, la densità metaforica dell’immaginario (la «scrittura d’immagini» che ritorna pressoché in tutte le sue liriche). «Questi giorni non diventeranno vita./ Forse già nel ventre di mia madre il mio destino/ s’è coraggiosamente separato da me»: secondo la più classica delle scintille poetiche (basti pensare al nostro Leopardi), la Lavant ha fatto della sconfessione reciproca tra la promessa di felicità e l’inadempienza della vita il fulcro della sua poesia.
«È stata distrutta e tradita dalla propria fede cristiano-cattolica», ha scritto ancora Bernhard. Ma ciò che più stupisce è l’estremismo e insieme la totalità di questo contrasto. «Mi hai strappato fuori da ogni gioia,/ ma io ne soffrirò soltanto,/ solo e unicamente, finché/ ne avrò voglia, Signore./ In uno stato di ferocissima superbia/ e furibonda audacia ti sto davanti».
Le poesie della Lavant hanno il carattere di una continua sfida. E come la bestemmia può anche valere come un’invocazione rovesciata, cosi il suo tono più proprio sta tra la preghiera e la maledizione, tra la santità e il sacrilegio. «Chissà se la stella gracile è esplosa per orgoglio?», si chiede. Fierezza e vergogna, audacia e senso di colpa, dunque. Ma in ogni caso, che parli dell’infimo della condizione umana o guardi dal basso alle costellazioni, che
nel suo costante riferimento a un “tu” si rivolga a Dio, o volta a volta alla propria anima, al cuore, all’amore, al corpo, alla vita, al creato, o ancora, come spesso accade, direttamente al lettore, la sua intonazione risulta sempre alta, energica, combattiva, senza mezze misure.
Anche nel profondo dell’abisso, il canto della Lavant possiede comunque, e a volte tanto di più, un’esultanza intima capace di vivere in presenza e malgrado il dolore. Così, se il particolare cattolicesimo dell’Austria più profonda costituisce il sistema dato, si può dire che la libertà della poesia rappresenti per la Lavant la possibilità di una prospettiva diversa e alternativa. Da questo punto di vista, la sua disposizione poetica è tutta in attacco. La poesia non viene intesa come lamento, discorso sulla sofferenza, riparazione delle ferite, ma è avvertita in ogni fibra come forza propositiva, vigore spirituale, conoscenza, esortazione, perfino come salute e come riscatto.
In uno splendido componimento ricco di echi danteschi, che Bernhard non ha però antologizzato, le stelle non a caso vengono ripescate dall’inferno. E davaero in alcune poesie la voce poetica sembra avere attraversato l’apocalisse. «Voglio finalmente sapere tutto del dolore!», grida in uno dei suoi testi più noti. La Lavant è intrepida, non ha paura, non fa calcoli. E non ha neppure la preoccupazione, lei che pure era entrata in contatto con le avanguardie viennesi, di risultare attuale, contemporanea, diversamente in questo dall’altra grande e più celebrata sua conterranea, Ingeborg Bachmann.
Nei versi della Lavant scorre invece qualcosa di fiero, d’indomito, di furioso. Eppure le me poesie, che intrecciano sogni e visioni, che rovesciano le dimensioni, i punti di riferimento consueti, le coordinate fisiche e morali del paesaggio terrestre e celeste, in molti casi sembrano scritte col compasso. La visionarietà della Lavant è precisissima, non possiede nulla di arbitrario. Questa pare la virtù più grande e originale della sua poesia.
Le rime, spesso ardite e imprevedibili, un po’ pazze, seguono in realtà la necessità della visione e del ragionamento. Allo stesso modo agli attacchi, tante volte formidabili — «La mia debolezza si serve di me», «Che notte senza testa!», «Questa notte era un lupo —/ forse la prossima sarà una mela?» —, segue poi un implacabile approfondimento dell’immagine e delle relazioni metaforiche, come se il poeta continuasse a battere sul proprio chiodo per piantarlo sempre più a fondo.
Non ci sono dubbi: alcune riuscite della Lavant devono essere considerate tra le più alte della poesia europea del secondo Novecento: «La mia ombra sa camminare sull’acqua,/ basta che la luna o ll sole siano nella giusta posizione/ allora la mia ombra brilla all’apice./ Questo brillare ovviamente è solo vanità,/ e non può riscaldare, non può mai essere reale,/ ma qualche volta è merito suo se una semplice pietra/ irradia riflessi argentati di fronte alle altre». [Corriere della sera, LA LETTURA, 31 dicembre 2016]

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