Due soldati

Mino Milani
Due soldati
il Regisole narrativa

Da ragazzo, Mino Milani ha sentito parlare della Grande guerra da un uomo che oggi, fosse vivo, avrebbe centovent’anni.
Si chiamava Carlo e di guerra non parlava volentieri.
A ventidue anni s’era trovato nell’inferno dell’Ortigara (52a divisione alpina, 12.633 tra morti, feriti e dispersi in 18 giorni di battaglia) e in tempo di trincea aveva mangiato pane e terra e respirato puzza di cadavere, prima di poter annotare sul suo diarietto, il 3 novembre 1918: «Dio, com’è grande e bella la vittoria».
Cattolico fervente era stato contrario alla guerra, ma quando gli avevano detto che era suo dovere combatterla, l’aveva combattuta, mettendocela tutta.
Scrive Mario Silvestri nel suo memorabile Isonzo 1917: «La viltà di pochi non faceva che mettere in risalto il coraggio dei moltissimi».
Quell’uomo, classe 1895, padre di Mino, nell’Italietta buonista d’oggi – che si coccola e si compiace di quei pochi – sarebbe un incompreso o forse un emarginato.
Suo figlio, oggi noto scrittore, ha scritto questo racconto pensando ai «moltissimi»: la storia di un mazziniano interventista e di un “ragazzo del ’99”.

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Due soldati e la Grande Guerra
di Luisa Voltan
Un ragazzo e un uomo, una donna e tante persone, un postino e due soldati. È dunque una storia di guerra l’ultima produzione letteraria di Mino Milani. Una storia dentro la Grande guerra, quell’avvenimento bellico a tutti noto come Prima guerra mondiale. E subito a pensare: roba di guerra, non lo leggerò. Ovvio constatare che, come in tutte le storie di guerra, anche qui, ci sono esplosioni e schegge, assordanti lamenti e odori indicibili – e qui la descrizione è semplice e al contempo terrificante. Ma in questo libro, come sempre nella scrittura di Milani, c’è molto altro: le passeggiate, prima della guerra «in un sentiero sotto gli alberi e lungo il torrente» dei ragazzi, e «abbracci, baci, naturale», prima della guerra. E le lettere che arrivano dal fronte: «il Signore mi ha tenuto la mano sulla testa e sono a scrivervi dopo che sono andato due volte all’assalto». Ci sono anche le notizie portate dal sindaco e la speranza che non bussi mai alla porta, durante la guerra. «La guerra sarebbe finita presto, no?» Inquieti i pensieri e le parole: «Entro Natale sarà finita», e poi: «ancora un anno così, e la guerra sarà finita».
I personaggi a tutto tondo non solo ci raccontano emozioni che ovviamente non vorremmo mai provare in prima persona, ma anche stimolano noi a porre domande inconsuete, noi che stiamo vivendo un tempo che appare senza guerra.
«L’idea della pace, invece, gli pareva facile e giusta», così scrive Milani del suo protagonista giovane, e gli fa dire: «Ti credevo un uomo pacifico» mentre discute col padre. Il lettore di oggi prova forse un senso d’imbarazzo all’idea di trovarsi a dover ribattere a una tale affermazione.
«Se ti richiamano e vai in guerra, vengo con te!» dice una ragazza, sorridendo: come reagirebbe a cotante parole d’amore un ragazzo di oggi?
Ma la guerra «tira vecchi tutti, anche quelli che non la combattono», la guerra è potente, la guerra tira a prendere una parte, fino a far dire: «No. Niente mangiare. Sapete che cosa dovete fare, voi due? No? allora ve lo dico io. Tornare indietro, dove il pane ve lo davano». Così inveisce la zia del ragazzo, al cospetto di due disertori, e rincara la dose: «Andare in Veneto, al vostro posto. Questo dovete fare. Via di qui!»
La grana del racconto è densa di quell’umore che è memoria raccolta in prima persona. L’invenzione sta nei passi dei protagonisti, ma il senso di ognuno di loro è travasato da quelle parole reali ascoltate dal giovane Guglielmo, non ancora scrittore. Un uomo del 1895, suo padre, anche se di guerra non parlava volentieri, riuscì a trasmettergli l’atmosfera di ciò che aveva vissuto in prima persona. Si chiamava Carlo, a ventidue anni s’era trovato nell’inferno dell’Ortigara, aveva mangiato pane e terra e respirato gli odori della trincea. Cattolico fervente era stato contrario alla guerra, ma quando gli avevano detto che era suo dovere combatterla, l’aveva combattuta, «per finire il lavoro dei nostri vecchi. Loro hanno cominciato a mettere insieme l’Italia e noi la finiremo», per dirla con le parole che Milani usa nel racconto. E ancora una volta c’è un pensiero da comprendere, c’é un’idea da rimuginare in questo piccolo libro.
Ma come va a finire? Il 3 novembre 1918, Carlo Milani annotò sul suo diario: «Dio, com’è grande e bella la vittoria». Nella narrazione di Mino Milani, prima della fine, c’è la battaglia, ci sono i soldati e gli ufficiali, ci sono le armi, c’è la morte. Nei luoghi in cui anche l’algido Hemingway provò l’esperienza bellica, siamo travolti con i soldati da polveri e odori, dolori e speranze; ascoltiamo con loro terribili ordini di morte: «E quando ordino “Fuoco”, voi sparate! Sparate».
Non lontani i tempi in cui il generale Garibaldi, tanto conosciuto quanto amato da Milani, ordinava ai propri soldati di far fuoco, non prima di avere il nemico vicino, non prima di aver visto il bianco dei suoi occhi. Qui invece l’ufficiale è perentorio: «Non pensate di sparare a qualcuno: sparate e basta!».
Fra queste righe, prima della fine, leggiamo altrettanto terribili parole di consolazione: «Avrebbe anche pianto, non fosse stato un ufficiale. Aveva un gran sonno. Non voleva dormire. Accese una candela, trasse dal suo zaino un quadernetto, con una matita copiativa cominciò a scrivere…»
Ma come va a finire? «Anche se le guerre non servono a nulla, i soldati le devono fare», dice a se stesso il ragazzo. Il libro finisce e si ricomincia a pensare.

Mino Milani: La guerra non serve a nulla ma i soldati meritano rispetto
Il primo conflitto mondiale nell’ultimo lavoro che sarà in libreria da giovedì. Storia di un giovane contrario alla violenza che si batte perché è il suo dovere
di Filiberto Mayda
Ci sono la Grande Guerra con i suoi morti, con gli atti di eroismo, le lacrime, il cameratismo; una piccola, delicata ma robusta storia d’amore; la dolorosa incomprensione tra padre e figlio; un bel pezzo di storia del nostro Paese con tutte le contraddizioni forse ancora oggi irrisolte. Eppure l’ultimo libro di Mino Milani, orgoglioso ottantottenne scrittore, si legge tutto d’un fiato con le sue cento, dense pagine. Il titolo Due soldati” (edizioni Effige, 100 pagine, 12 euro), in libreria da giovedì richiama da un lato la storia stessa, dall’altra ricorda che Milani fu soldato e soldato fu suo padre Carlo a cui è dedicato il lungo racconto. Un testo in cui Mino Milani, senza forzare la retorica, lascia spazio ai gesti coraggiosi, alle scelte difficili, senza aver paura di far dire con fierezza a un diciottenne fino a quel momento contrario alla guerra che lui «era figlio di un soldato».
Mino Milani, è il primo libro non ambientato a Pavia. Anzi, tutto inizia in un non meglio specificato «paese abbastanza grosso tra la fonda campagna e la città». Come mai questascelta?
Perché questa volta volevo sì raccontare una storia, che è quello che mi piace fare, ma anche ribadire che non si deve confondere la guerra con i soldati, il male della guerra, spesso inevitabile, con chi è costretto o sceglie di combatterla. Come scrivo nel libro, «anche se le guerre non servono a nulla, i soldati le devono fare». E’ stato così per mio padre Carlo, così è stato per me. Era un cattolico tosto, mio padre, era contrario all’intervento, ma quando fu chiamato disse: vado, è mio dovere. Ecco, vorrei che per le persone come lui, che sono morte o l’hanno scampata combattendo in guerra, ci fosse rispetto, rispetto per la scelta che hanno fatto.
L’Intero racconto è pervaso, se possiamo dire così, di semplicità e chiarezza. Pur essendoci diverse storie che in qualche modo si intrecciano, alla fine prevale la linearità della narrazione.
La mia intenzione era proprio questa: raccontare la vicenda di un giovane uomo che, fedele ai suoi ideali, va a combattere, anche eroicamente, la guerra che certamente non voleva. Una scelta, prima contrastata dal figlio adottivo, poi compresa.
Nel raccontare le battaglia, ha parole dure per fi generale Cadorna, lo liquida, di fatto, con questa frase: «A guidare nostri soldati erano comandanti che valevano poco».
Mio padre non lo sopportava. A soli ventidue anni aveva combattuto nell’inferno dell’Ortigara (oltre 12mila morti e feriti in 18 giorni di battaglia su quelle montagne del Veneto) e sapeva bene di cosa parlava. Ricordo che anni fa venne qui il nipote di Cadorna, in un incontro in cui c’ero anch’io. Mi fu chiesta un’opinione, io dissi che mio padre si rabbuiava quando si parlava di Cadorna. Il nipote la prese male, lessi il suo labiale e non ebbe belle parole per me. Ma i fatti sono i fatti, i nostri soldati furono mandati al macello.
Italiani coraggiosi, nella Grande Guerra, ma che disperazione, che tragedie.
Terribili, ma quando la guerra arriva bisogna combatterla. Anche se poi lascia segni profondi, anche nella storia. Vede, ho sempre sostenuto che gli italiani non siano riusciti ad opporsi al fascismo perché, potremmo dire, il meglio della gioventù morì nelle trincee e non ci furono le forze, anche intellettuali, di dare alternative. E poi, se possibile, ci sono guerre peggiori delle altre. Lo compresi con chiarezza quando, molto tempo fa, conobbi una famiglia spagnola e mi raccontarono gli orrori della guerra civile. Ecco, quando si combatte tra connazionali credo che sia davvero terribile, e spesso il peggio degli uomini viene fuori in queste situazioni. Penso, ad esempio, alla guerra contro il brigantaggio: ci furono delle tali violenze, da una parte e dall’altra… Ecco, italiani contro italiani, davvero orribile.
Come fu il periodo della Repubblicadi Salò?
Ne scrissi in un libro. Approfondii quella fase della storia negli ultimi anni Cinquanta.All’epoca scrivevo per il “Corriere dell’Informazione” e lavoravo alla Biblioteca Bonetta, a Pavia. Ricordo che fui contattato dalla sorella di Umberto Ceva, martire della Resistenza originario di Pavia che morì in carcere. Lei aveva ottenuto una borsa di studio per una ricerca sulla Resistenza in Oltrepo e io l’aiutai. Ho così potuto conoscere bene quella fase della nostra storia, incontrando personaggi come Italo Pietra, Domenica Mezzadra e altri ancora. Ci furono persone eccezionali, ma anche delinquenti, da una parte e dall’altra.
Questo suo libro, dunque, è anche una testimonianza del coraggio degli italiani.
Sì, credo e sono convinto che gli italiani siano sempre stati migliori di come ci hanno voluti dipingere e di come, purtroppo, ci dipingiamo noi stessi. Ho cercato, con semplicità, di dare un mio contributo per ricordare il coraggio di tanti connazionali.
“La Provincia Pavese”, 17 maggio 2016

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Mino Milani nel catalogo effigie

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2 Risposte to “Due soldati”

  1. Due soldati - Mino Milani - Narrativa - Leggere libri, leggere libri Says:

    […] soldati è un romanzo dello scrittore pavese Mino Milani pubblicato nel 2016 da Effigie edizioni nella collana Il […]

  2. Amori e guerra | direfarebaciare Says:

    […] 18, libreria DELFINO, piazza Cavagneria, Pavia) proponiamo un’intervista all’autore di Due soldati, edito da […]

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