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Poesie

1 dicembre 2016

dicembre 2016

Christine Lavant
Poesie scelte da Thomas Bernhard
Traduzione di Anna Ruchat
le Meteore

So bin ich Haus und Hof und Brotgerüst
und manchmal auch ein ganz geheimer Hügel,
wo meine Feindsal dunkle Trauben trägt,
damit die Heiligen Zigeuner werden.

Così io sono casa e corte e impalcatura del pane
e a volte anche una segretissima collina
dove la mia ostilità produce frutti oscuri
affinché i santi possano diventare zingari.

Questo libro propone una scelta di poesie – finora inedite in Italia – tratte dalle quattro principali raccolte dell’austriaca Christine Lavant.
Nel 1987 Thomas Bernhard, che stava curando la silloge, scrisse al suo editore tedesco: «La nostra poetessa è tra le più interessanti e merita di essere conosciuta nel mondo intero».

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Christine Lavant (pseudonimo, di Christine Habernig-Thonhauser) era nata a St. Stefan, nella valle del Lavant, il 4 luglio 1915.
Ultima di nove figli di una poverissima famiglia carinziana, iniziò a scrivere molto presto ma pubblicò solo a partire dal 1948 (il racconto lirico Das Kind), fissando subito la sua tematica su persone umili e diseredate, come dimostrano anche i successivi Das Krüglein (1949), Baruscha (1952), Die Rosenkugel (1956), Das Ringespiel (1963), Nell (1969).
Compose, con accenti del tutto spontanei, raccolte di poesie, inizialmente sotto l’influsso di Rilke, poi sempre in progressiva autonomia, cioè sempre più elementari ed essenziali (Die unvollendete Liebe, 1949; Die Bettlerschale, 1956; Spindel im Mond, 1959; Der Pfauenschrei, 1962; Hälfte des Herzens, 1966).
Fin dal 1954 i suoi libri sono insigniti di premi e riconoscimenti.
Christine Lavant muore il 7 giugno 1973.

Il mio destino si è separato da me
di Roberto Galaverni
Non ci si poteva probabilmente augurare l’edizione italiana di un poeta migliore. Ci riferiamo a Christine Lavant, di cui è appena stata pubblicata una raccolta antologica, Poesie, nella traduzione di Anna Ruchat (Effigie). Il volume ripropone la scelta approntata nel 1987 per un’edizione tedesca nientemeno che da Thomas Bernhard, che intendeva così rendere giustizia al valore di queste poesie, nonché all’inusuale integrità e insieme al radicalismo della vicenda esistenziale e artistica della scrittrice austriaca. «Si tratta — aveva chiarito Bernhard — della testimonianza elementare di un essere umano strapazzato da tutti gli spiriti celesti, un essere umano, che altro non è se non grande letteratura, meno conosciuta nel mondo di quanto meriterebbe».
A trent’anni di distanza, tutte queste ragioni possono essere riprese alla lettera. Il suo cognome da ragazza in realtà era Thonhauser, mentre lavarti è lo pseudonimo adottato da Christine in omaggio alla valle della Carinzia in cui era nata nel 1915 (morirà nel 1973). Ultima dei nove figli di una famiglia estremamente povera, fin da subito molto malata — «smilza e avida di miracoli», come dirà in un suo verso —, è stata un’autodidatta, a cominciare dalla folgorazione ricevuta dalla lettura di Rilke, che poi resterà sempre il suo riferimento più importante.
Rispetto alla letteratura in lingua tedesca è comunque un’austriaca del Sud, un’appartata, una meridionale. E anche se a quest’aspetto si legano alcune peculiarità divenute quasi una piccola leggenda, non c’è dubbio che la Carinzia intrida in profondità i suoi versi: il senso di separatezza, l’educazione cattolica fortemente conservatrice, la Bibbia, le preghiere, le tradizioni e le pratiche di un mondo contadino arcaico, i canti e i detti popolari, la credenza nei sogni, la percezione animistica del mondo creato, quasi ai limiti della stregoneria, la densità metaforica dell’immaginario (la «scrittura d’immagini» che ritorna pressoché in tutte le sue liriche). «Questi giorni non diventeranno vita./ Forse già nel ventre di mia madre il mio destino/ s’è coraggiosamente separato da me»: secondo la più classica delle scintille poetiche (basti pensare al nostro Leopardi), la Lavant ha fatto della sconfessione reciproca tra la promessa di felicità e l’inadempienza della vita il fulcro della sua poesia.
«È stata distrutta e tradita dalla propria fede cristiano-cattolica», ha scritto ancora Bernhard. Ma ciò che più stupisce è l’estremismo e insieme la totalità di questo contrasto. «Mi hai strappato fuori da ogni gioia,/ ma io ne soffrirò soltanto,/ solo e unicamente, finché/ ne avrò voglia, Signore./ In uno stato di ferocissima superbia/ e furibonda audacia ti sto davanti».
Le poesie della Lavant hanno il carattere di una continua sfida. E come la bestemmia può anche valere come un’invocazione rovesciata, cosi il suo tono più proprio sta tra la preghiera e la maledizione, tra la santità e il sacrilegio. «Chissà se la stella gracile è esplosa per orgoglio?», si chiede. Fierezza e vergogna, audacia e senso di colpa, dunque. Ma in ogni caso, che parli dell’infimo della condizione umana o guardi dal basso alle costellazioni, che
nel suo costante riferimento a un “tu” si rivolga a Dio, o volta a volta alla propria anima, al cuore, all’amore, al corpo, alla vita, al creato, o ancora, come spesso accade, direttamente al lettore, la sua intonazione risulta sempre alta, energica, combattiva, senza mezze misure.
Anche nel profondo dell’abisso, il canto della Lavant possiede comunque, e a volte tanto di più, un’esultanza intima capace di vivere in presenza e malgrado il dolore. Così, se il particolare cattolicesimo dell’Austria più profonda costituisce il sistema dato, si può dire che la libertà della poesia rappresenti per la Lavant la possibilità di una prospettiva diversa e alternativa. Da questo punto di vista, la sua disposizione poetica è tutta in attacco. La poesia non viene intesa come lamento, discorso sulla sofferenza, riparazione delle ferite, ma è avvertita in ogni fibra come forza propositiva, vigore spirituale, conoscenza, esortazione, perfino come salute e come riscatto.
In uno splendido componimento ricco di echi danteschi, che Bernhard non ha però antologizzato, le stelle non a caso vengono ripescate dall’inferno. E davaero in alcune poesie la voce poetica sembra avere attraversato l’apocalisse. «Voglio finalmente sapere tutto del dolore!», grida in uno dei suoi testi più noti. La Lavant è intrepida, non ha paura, non fa calcoli. E non ha neppure la preoccupazione, lei che pure era entrata in contatto con le avanguardie viennesi, di risultare attuale, contemporanea, diversamente in questo dall’altra grande e più celebrata sua conterranea, Ingeborg Bachmann.
Nei versi della Lavant scorre invece qualcosa di fiero, d’indomito, di furioso. Eppure le me poesie, che intrecciano sogni e visioni, che rovesciano le dimensioni, i punti di riferimento consueti, le coordinate fisiche e morali del paesaggio terrestre e celeste, in molti casi sembrano scritte col compasso. La visionarietà della Lavant è precisissima, non possiede nulla di arbitrario. Questa pare la virtù più grande e originale della sua poesia.
Le rime, spesso ardite e imprevedibili, un po’ pazze, seguono in realtà la necessità della visione e del ragionamento. Allo stesso modo agli attacchi, tante volte formidabili — «La mia debolezza si serve di me», «Che notte senza testa!», «Questa notte era un lupo —/ forse la prossima sarà una mela?» —, segue poi un implacabile approfondimento dell’immagine e delle relazioni metaforiche, come se il poeta continuasse a battere sul proprio chiodo per piantarlo sempre più a fondo.
Non ci sono dubbi: alcune riuscite della Lavant devono essere considerate tra le più alte della poesia europea del secondo Novecento: «La mia ombra sa camminare sull’acqua,/ basta che la luna o ll sole siano nella giusta posizione/ allora la mia ombra brilla all’apice./ Questo brillare ovviamente è solo vanità,/ e non può riscaldare, non può mai essere reale,/ ma qualche volta è merito suo se una semplice pietra/ irradia riflessi argentati di fronte alle altre». [Corriere della sera, LA LETTURA, 31 dicembre 2016]

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Le nature indivisibili

1 dicembre 2016

dicembre 2016

Claude Royet-Journoud
Le nature indivisibili
Traduzione di Domenico Brancale
le Meteore

dirti una sola cosa
(senza usare la bocca
né la lingua
e senz’alcun rumore di sillabe)

gesti di collera

una generazione d’intrecci

liquido non mi appartiene

Apprezzato da autori come Edmond Jabès, Paul Auster e Jean-Luc Nancy, Claude Royet-Journoud è uno dei più importanti poeti contemporanei in Francia. La sua scrittura por tata al limite della rarefazione, spogliata della metafora e del dispositivo poetico convenzionale ha sviluppato uno stile libero in quella ricerca continua di una nudità di parola. Lo spazio bianco, le parole, la messa in pagina condividono all’unisono il silenzio del libro. Questo silenzio è la grana della voce che resiste e nutre la parola. Le nature indivisibili, ultimo libro della tetralogia cominciata nel 1972 con il libro Le Renversement, conferma definitivamente questo percorso: l’inscrizione della poesia sulla pagina co me teatro catartico del desiderio. Quella di Claude Royet-Journoud è una poesia che aderisce alla realtà senza compromessi, dove leggere significa non più voler sapere e comprendere, ma far dell’incomprensibilità un’esperienza inaugurale della lettura. A parte alcune traduzioni apparse in rivista, Le nature indivisibili è il primo libro di Claude Royet-Jornoud in Italia.

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Claude Royet-Journoud è nato a Lione nel 1941.
A partire del 1963 ha fondato e diretto con Anne-Marie Albiach e Michel Couturier la rivista Siècle à mains cui succederanno le riviste «A», L’In-plano, Zuk, Anagnoste e Vendredi 13.
Ha tradotto George Oppen e pubblicato John Ashbery e Louis Zukofsky. Nel 1974 ha creato e diretto per la radio il programma “Poésie ininterrompue” su “France Culture”.
Una tetralogia, frutto di un lavoro di venticinque anni, costituisce l’opera principale apparsa per Gallimard: Le Renversement (1972), La notion d’obstacle (1978), Les objets contiennent l’infini (1983) e Les natures indivisibles (1997). Per l’editore P.O.L è apparso nel 2016 il libro La Finitude des corps simples. Collabora alla rivista “Koshkonong” diretta da Jean Daive.
Vive a Parigi.

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Le regole del viaggio

5 aprile 2016

Le regole del viaggio
è nella terna finalista del Premio Città di Arenzano 2017

Per riavermi disperdo e finisco nel bosco
ogni dolore tramutandolo in apparente bene
che possa rasserenarmi.

Andrea Gibellini
Le regole del viaggio
le Ginestre

La natura ha grandi foglie
puoi toccarle bagnate dalla pioggia
con le mani. Sono verdi e giganti
hanno una mappa di venature
al loro interno come un araldico arazzo.
Ma spostando le fronde con la lama
appuntita di un conquistador sento
il battito spaventato di un pettirosso che lungamente
assiepatosi su un rametto prende il cielo svolando
azzurrissimo, irreale, fuori da ogni età
e imprevisti di viaggio.

Le regole del viaggio di Andrea Gibellini sono un passaggio definitivo verso quella consapevolezza poetica d’immagini liriche che aveva caratterizzato i suoi due precedenti libri Le ossa di Bering e La felicità improvvisa.
Qui una sfasatura temporale di situazioni poetiche entra nelle regole della vita di ognuno di noi e determina un orizzonte di sguardi che sfuggono, con orgoglio e ironia, dalla stasi dell’ordinario. La lingua della poesia, nel contatto con la natura e con i suoi colori, nella scoperta di un evento poetico, a volte pare ancora di più affilarsi con un incedere metallico: è l’istante, la sua incandescente ed essenziale promessa che dovrebbe resistere ad ogni cosa avversa, la vera sfida di questa poesia.
Il paesaggio che sappiamo emiliano, di fiumi e di pianure e di brevi colline all’orizzonte, assume contorni quasi fantastici; gli animali che lo abitano diventano esseri con manifestazioni preveggenti.
Si richiamano i nomi di poeti, Brecht, Fortini, Bandini, fino al più giovane Remo Pagnanelli, come fossero i Lari magici di un percorso poetico, di un viaggio che non vuole vedere, con istintiva ostinazione (e chi è la figura-persona che intesse i versi sempre in caccia di una sorgente emotiva…), la propria fine.
Su questa luce lirica e allo stesso tempo onirica e di canto che attraversa le cose e il paesaggio, si instaura una dimensione poetica mai reclusa dove la realtà è scossa da una immaginazione che vuole divenire finalmente libera e indelebile.

Le regole del viaggio
è stato scelto per la terna finalista del Premio Castello di Villalta Poesia 2016

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Andrea Gibellini (Sassuolo, 1965). Ha pubblicato: Le ossa di Bering (Nce, 1993), La felicità improvvisa (Jaca Book, 2001, “Premio Montale”).
Suoi testi poetici e scritti sulla poesia sono apparsi su “Nuovi Argomenti”, “Antologia Vieusseux”, “La Rivista dei Libri”, “Poesia”, “Oxford Poetry”, “Agenda”, “Poetry Review”. Ha curato un volume della rivista “Panta” dedicato alla poesia (Bompiani, 1999) e l’almanacco Stagione di poesia (Marsilio 2002). Per le Edizioni L’Obliquo è il saggio Ricercando Auden (2003). Sue poesie sono state pubblicate nell’ “Almanacco dello specchio” (Mondadori, 2008). Ha pubblicato il libro di saggi sulla poesia L’elastico emotivo (Incontri Editrice, 2011). La pubblicazione più recente è il quaderno in prosa Diario di Vaucluse (Edizioni Psychodream, 2014).

Il demone del paesaggio è in Emilia di Roberto Galaverni
“Corriere della Sera” 5 giugno 2016

Ci sono poeti che hanno il demone del paesaggio, e Andrea Gibellini è uno di questi. Nei suoi versi il paesaggio è tutto: un termine di reazione percettiva e sensibile, un approdo conoscitivo, un confidente fedele, un avversario, un pozzo da cui veder riaffiorare la storia personale, un punto di fuga, una pista di lancio per l’immaginazione e per il sogno. In ogni caso è sempre lì, al cospetto del paesaggio che il poeta cerca se stesso, l’intelligenza delle cose, una possibile consistenza individuale, come se si trovasse davanti a una costellazione da cui ricavare la cifra del proprio destino.
Il terzo libro di poesie di Gibellini, Le regole del viaggio (Effigie), non nasconde da questo punto di vista il proprio retaggio. Attilio Bertolucci, Vittorio Sereni, più indietro Eugenio Montale, ma anche certi poeti in lingua inglese, ad esempio Ted Hughes e Seamus Heaney, sono i maestri che hanno contato di più nella definizione del suo linguaggio poetico. E a questi si possono aggiungere Franco Fortini, ma anche, tra i poeti delle generazioni più vicine, Remo Pagnanelli, Fabio Pusterla, Gianni D’Elia. L’Emilia, in particolare, è il suo territorio d’elezione, tra la città — Modena, Bologna, Sassuolo (dov’è nato nel 1965) — e la campagna, meglio ancora la collina: B bosco, E fiume, gli arbusti, gli spazi coltivati, qualche animale.

Il viaggio a cui allude il titolo del libro è quello della vita traguardata attraverso il paesaggio, e quelle che vengono dettate qui sono appunto le sue regole. Queste poesie mettono in scena un autentico rituale d’avvicinamento, corteggiamento, provocazione, contatto con quello che proprio Sereni chiamava il «paese visibile». E se il personaggio-poeta gli s’accosta ogni volta con devozione e tremore, non è detto però che le risposte siano più numerose dei colpi a vuoto: «Non c’è/ requie (e regno) c’è invece paura per il/ gracchiare acuto profondo del temporale/ che sentiamo sfibrare sopra il bosco./ Qui avrei voluto concepire tenerezza e riposo».
S’intravede al fondo una società da cui si prendono le distanze e, reciprocamente, la definizione di un punto di vista liminare e un poco eslege, un’idea di sopravvivenza e di libertà diverse, una disubbidienza non solo storico-esistenziale ma, forse anche più, metafisica (Disubbidire è appunto il titolo di una poesia).
Accanto alla campagna, al bosco, alla collina, compaiono allora in queste poesie alcune situazioni-tipo come il trasloco, con relative pulizie, un elenco delle poche cose possedute, un fantasmatico curriculum vitae, un sopralluogo in una casa in rovina, un’officina, qualche giardino, una discarica, un passaggio sul mare in un luogo turistico certo non di prima scelta. Si tratta di altrettante occasioni in cui la cosiddetta identità personale si misura con i propri feticci, lacune, paradossi, finzioni, a cui contrappone un continuo desiderio d’intensità percettiva, emotiva, anche intellettuale. L’«inaudito batticuore», così anche lo chiama Gibellini. E proprio la parola intensità, come quella contigua di emozione, si lega al carattere più profondo de Le regole del viaggio. Da ogni punto di vista si trova impazienza, insofferenza per tutto quanto è orizzontale, monocorde, incolore, atonale. Lo sguardo in presa diretta portato sulle cose si apre di continuo alla dimensione verticale, il presente trapassa nella memoria, il vedere nella visione e, a tratti, nella surrealtà.

Il discorso poetico procede così attraverso continui strappi, dislivelli e accelerazioni percettive. A condurre per lo più la danza è una grammatica di natura emotiva, una sintassi delle immagini che improvvisamente si fanno ricordo e immaginazione. Gibellini persegue queste frequenze anche al limite dell’eccesso, costi quel che costi, perché a volte il cacciatore d’intensità sembra inseguire anche solo una particolare immagine sonora — un aggettivo, un verbo, una determinata associazione ritmica e musicale — piuttosto che l’esperienza, diciamo pure la conquista di realtà che a quell’accelerazione espressiva faccia da corrispettivo. Così può capitare che questo linguaggio poetico perda un poco della sua energia proprio là dove più sembra cercarla.
Le poesie più esatte e risolte sono invece quelle in cui maggiore è il governo, la messa a fuoco concettuale della situazione di riferimento. Emozione visiva, intellettuale e musicale fanno così tutt’uno, e la poesia diGibellini, il che non è da tutti, rivela allora un carattere di grande memorabilità: «Ma oggi ho compilato un curriculum/ vitae dove, come dal fondo di un abisso, mi sichiede/ chi sono, cosa faccio, quali referenze ho —// chiedetelo all’aldilà».

La natura ha grandi foglie di Marco Fioramanti
“ART 33” n.5-6 2016

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La trama vivente

5 aprile 2016

La materia dissolta,
sollevata dalla folata taciturna,
sostanza disgregata, folla incoerente sale
nel corpo di luce dell’ultimo cielo.

Claudio Borghi
La trama vivente
le Ginestre

Non ho imparato tutti i nomi dei fiori,
né so bene che diverso profumo
emanano respirandoli. Conosco
i giacinti i fiordalisi le camelie
la mimosa la genziana il tulipano,
ma non li ricordo, come fossero parti
di un unico fiore indifferenziato.
Solo trattengo innumerevole il fiato
delle rose e il labirinto in cui si perde
la mente che stupita le avvicina
e dentro annega, ancor prima
di sentirne il profumo, stordita
dalla bellezza primordiale della forma.

“Il mondo che ricorda Claudio Borghi è un mondo primario, un’unità originaria che si vede continuamente, dolorosamente frammentata.
Esiste una fusione, amniotica o divina. O meglio, preesisteva. E l’esistere, con la propria multiformità, con la sequenza pur gioiosa delle nascite: divide. Diabolicamente, nel senso etimologico …
L’esperienza di una fusione originaria è stata possibile qui, sulla terra, durante il tempo atemporale – e dunque vero – dell’infanzia. Poi, siamo in esilio: la cosa nuda è andata smorendo, sono venuti in luce i particolari, gli istanti, le perdite e la nostalgia, la linea retta delle cronologie, i meri fatti umani. Siamo caduti nello spazio e nel tempo …
Ma, nel frattempo che chiamiamo vita, come sistemare il nostro sguardo adulto di fronte al mondo delle cose scisse? Borghi gira intorno il pensiero cercando bagliori dell’unità perduta, intuizioni del bene originario, di quando tutto e tutti fummo uno. Probabilmente senza tempo e luogo. Probabilmente senza pensiero. Ché il pensiero è il danno che ci è dato. E che noi agiamo quotidianamente. Poi, per lampi, visioni, intuizioni: ricordiamo.
Per momenti improvvisi, non per domande: sappiamo. Spesso chiamiamo Dio questa sapienza, questa memoria, la luce bianca o d’oro che percepiamo. Ma è una convenzione, è per rifarci a una storia nota, già scritta da altri, che ci rende ragione del nostro dolore, della triste caduta nella forma, alla quale possiamo dare il nome di solitudine”. (Maria Grazia Calandrone, in “Poesia” n. 307)

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Claudio Borghi (Mantova, 1960). Insegna matematica e fisica nel Liceo Scientifico di Mantova. Ha pubblicato alcuni articoli scientifici su riviste specializzate nazionali e internazionali, in particolare sul concetto di tempo e la misura delle durate secondo la teoria della relatività di Einstein.
Presso Effigie è uscita la sua prima raccolta di versi e prose Dentro la sfera (2014).

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Nel nosocomio

19 febbraio 2016

Oggi un nuovo decreto legge ha finalmente stabilito,
e stavolta definitivamente, che non ci conviene uscire dal nosocomio.
Fuori ci svuotano le tasche con le tasse, nessuno ci protegge dagli extracomunitari, fuori romba lo sciame sismico e dai più poveracci anche lo tsunami.

Rosaria Lo Russo
Nel nosocomio
le Ginestre

Allegoria svelatamente scoperta dell’Italia contemporanea, Nel nosocomio restituisce, non troppo metabolizzata, l’allucinazione kafkiana di un Paese per vecchi, la protervia disgustosa della volgarità e dell’ignoranza al potere, dove l’amore per la bellezza è svanito nei vapori goduriosi di quei centri di wellness teledipendenti che hanno sostituito ogni forma civile di aggregazione sociale, dove l’eterna giovinezza apparente del vecchiume imperante uccide ogni giorno i giovani, con lo scippo e lo stillicidio del loro e nostro non futuro.
Nel nosocomio è una tragedia classica negata, mira dritto ad una catarsi impossibile, ogni suo pezzetto è un gesto verbale apotropaico contro un orrore privo di ogni sia pur minimo fascino konradiano, l’orrore della vita affogata nel trash, parodia del kafkismo novecentesco decaduto a ridicolo.
Nella terza parte, Dal dormitorio, si alzano sparute voci di strazio, l’esaltazione disperata che tenta un parziale riscatto nelle repliche di una antologia di Spoon River glocalizzata e alla portata di una audience da successi pop.
Nel nosocomio è il frutto atroce del lutto, del lutto per tutto, e anche del rutto per tutto.

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Rosaria Lo Russo (1964), poetrice (poeta, voce recitante e attrice), traduttrice, saggista.
Per la poesia ha pubblicato Comedia (Bompiani, 1998, con cd), Penelope (d’if, 2003), Lo Dittatore Amore (Effigie, 2004, con cd), Io e Anne. Confessional poems (d’if, 2010, con cd), Crolli (Le Lettere, 2012), Poema (1990/2000) (Zona, 2013).
Ha tradotto le poesie della statunitense Anne Sexton (Poesie d’amore, Le Lettere 1996, Poesie su Dio, Le Lettere 2003, L’estrosa abbondanza, con Edoardo Zuccato e Antonello Satta Centanin, Crocetti 1997).
Da oltre vent’anni presta la voce e il corpo alla maggiore poesia universale tenendo reading-performance in Italia e all’estero.

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Combattimento ininterrotto

31 agosto 2015

vincitore del Premio Poesia Città di Fiumicino 2017

Alessandro Ceni
Combattimento ininterrotto
le Ginestre

Entra, in questa Lapponia della mente in questa Islanda del cuore,
nel pubere esilio di un’infinita prospettiva, nella taiga nella tundra
nella muta fornace, un cumulo rossiccio e senza fondo
dove puoi imparare a fare a meno di dio e dire ecco
uno si sveglia in una stanza d’albergo uno in un’altra, entra
ed ascolta lo stantìo di molti in un camerone,
il puzzo dentro la scatola, il bambino brutto avvolto
in una matassa di fuliggine dipanarsi nel ventre obeso
del cielo come una figurina di pasta lievitata – un lontano
profumo in cui riconosci il calamo ottuso della vita, la tregua –

Una voce in rivolta ad alta intonazione, tra cedimento e responsabilità fonda un nuovo paradigma poetico. L’occhio lucido, asciutto e furente di Ceni tiene sotto osservazione il tempo e lo spazio, conculcata ogni illusione ne registra lo stato di deriva: «Né amore né dio servono questo tipo di purezza» è il verso incipitario di uno dei brani in cui il pensiero si arrovella sulla «furibonda entità», la «nevrile imminenza» di trovare la parola, l’unguento, il filo da sutura. Le cose accadono senza che il pensiero possa coglierne le ragioni, gli atti, assurdi e tragici, sono inadeguati alle possibilità e ai desideri: la natura umana in questa ultima raccolta è esclusivamente volta all’essere, come ogni natura. Quando il livellamento e l’omologazione prevalgono sull’autenticità, l’indifferenza sulla sensibilità, l’epidermide sulle vene, il pensiero diventa inane e la lingua indigente; così Ceni combatte dal piano cognitivo e linguistico causa ed effetto di ogni possibile o perduto umanesimo: riconosciuta l’inconsistenza di tutto, in un clima da fine della specie, accenti apocalittici e sapienziali, spesso metapoetici costruiscono avvenimenti aderenti alla miserabilità di un pullulare vagante più che errante, privo di forme di conservazione, e in mano ai mercatores. In questa grottesca landa schizofrenica e collassante che è divenuta la nostra stessa esistenza il grido di Ceni, compiuta dagli esordi la riduzione all’impersonalità, giunge «sotto mentite spoglie e per interposta persona», cioè attraverso azioni ad elevato tasso metaforico, dove i fitti richiami (Ovidio, Dante, Leopardi, Whitman, Dylan Thomas) mutano in un lessico specialistico o di nuovo conio attinto soprattutto dall’ornitologia, branca della zoologia cara ai poeti qui rifondata alla radice. Aironi, ardeidi, silvidi, fino a «desueti nomi di uccelli» penetrano e prolificano il resto o stoico residuo della natura per dare voce a una realtà dislocata e indistinta (utile qui fare il nome del solitario e aristocratico narratore Landolfi): gli animali, le piante, la sofferenza subita e inflitta che divide ogni possibile fratellanza. La inelaborazione del dolore, Riserva indiana, Il sale, Sconosciuto entrato in una foto sono le quattro cadenzate intense sezioni di questa importante raccolta in cui si dice la condizione lacerata, isolata, eroica e, se pur talvolta perplessamente riscattatrice, non-sperante della poesia. Il combattimento ininterrotto di Ceni crea una trama di echi, un’ecolalia che riallaccia grumi di pensiero fondante, un idioletto invasivo che resiste: una grande danza «priva di ogni gioia» fatta per definire e sottrarre. (Silvia Zoppi Garampi)

Combattimento ininterrotto
entra nella rosa del premio Viareggio 2016 poesia

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Alessandro Ceni (Firenze, 1957). I fiumi d’acqua viva (in “Poesia Uno”, Guanda, 1980); Il viaggio inaudito (Tosadori, 1981); I fiumi (Marcos y Marcos, 1985 e 1990); La natura delle cose (Jaca Book, 1991); Il pieno e il vuoto (antologia, Marcos y Marcos, 1995); Tra il vento e l’acqua (autoantologia e riflessioni, Edizioni della Meridiana, 2001); Mattoni per l’altare del fuoco (Jaca Book, 2002); La ricostruzione della casa (poesie scelte 1976-2006, Effigie, 2012); Parlare chiuso ,tuttelepoesie (Puntoacapo, 2012).

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L’ultima fede

31 agosto 2015

Marco Massimiliano Lenzi
L’ultima fede
le Ginestre

Di ognuno io porterò il tempo
come è il grido dello sterminio
contenuto già nell’infinito.
Il peccato è una luce stabile dell’apparenza,
è il passero che entra nella fucilata
oppure è un niente insostenibile
coricato nel diaframma.
Io prego da qui
che questo nulla sia inizio

Scandito in quattro raccolte, L’ultima fede affronta una lingua raffinata e preziosamente articolata, un linguaggio e un pensiero perturbante: spostamenti imprevedibili di nuclei eidetici, accoppiamento di immagini a immagini ciascuna delle quali spesso diverge, per senso e suggerimento, dall’altra, finché tale assemblaggio converge verso una unità qualitativa finale. L’assieme di tale scrittura è alchimistico. In quest’opera, c’è un autentico dramma dello spirito, che si spalanca sulla natura tragica dell’Evento (non dell’accadimento) e che attraversa tutto il testo. L’intero libro si espone alla contemplazione e meditazione di vere forze in lotta, interne ed esterne, delle quali viene “narrata” la fenomenologia. L’impatto con la Notte, con il baratro e la banalità del negativo, certo esige una Fede ultima e, di quella fede, pretende l’ultimità, cioè una sua qualità indefinibilmente definitiva. È, questa, una posizione mentale accarnata e l’autore vi innesta l’autorità del sangue. La grande poesia attinge i fondali dell’abisso, si contagia col Principio.

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Marco Massimiliano Lenzi (Pistoia, 1955) è docente, saggista e poeta. Le sue raccolte di poesie: L’improvviso (Associazione Piero Bigongiari-I Quaderni del Battello Ebbro, 2001); Il Viaggio dell’Orizzonte (Jaca Book, 2005); I camminamenti delle tenebre (in “Almanacco dello Specchio”, Mondadori, 2009).

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I dubbi la storia

31 agosto 2015

Pier Paolo Ciuffi
I dubbi la storia
le Ginestre

E da tutto questo
buttare spore, accrescere i viventi e disparire,
da questo ovattato spolpare
ho udito levarsi
gloria
senza parole udibili
se non un frizzare feroce, nelle brezze.

I suoni mesti di una chimerica creazione si alternano ai panorami amati dalla Saffo leopardiana, siti inquieti e tribolati, raggi meridiani che mettono alla prova lo sguardo imperfetto del poeta, ritmi irregolari non dominabili, sfuggenti, in cui manca sempre qualcosa per afferrarli. C’è un procedere per tentativi, un indietreggiare di fronte a ciò che è enunciato, una difficoltà a definire oltre l’apparenza, un procedimento che avanza per dissolvenze. In un Occidente certo cambiato, possiamo citare per I dubbi la storia quanto scriveva Harold Bloom sui versi di Paul Celan: »La poesia: insieme rifiuto della barbarie e affermazione (comunque la si voglia classificare) del potere della mente su qualsiasi universo di morte, sia esso naturale o nazista».

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Pier Paolo Ciuffi (Massa, 1962), giornalista. I dubbi la storia è il suo primo libro.

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Una scintilla d’oro

10 marzo 2014

Indecifrata voglia straripante
travolge la vita
catturando la colomba
nascosta nel bosco dell’amore.

kemeny

Tomaso Kemeny
Una scintilla d’oro a Castiglione Olona
e altre poesie
le Ginestre

Ma fu lì che
sentìi sgorgare le acque in grado di
risanare il mondo e vidi
tempi in cui i figli della donna
e dell’uomo ritroveranno
il rispetto di sé
chiudendo i commerci con la morte.

I versi di Tomaso Kemeny realizzano il sogno mitomodernista di determinare corrispondenze tra le varie forme di espressione artistica anche nel miraggio di un’utopia che sappia prospettare un futuro reso intenso dalla reinvenzione dell’eroico, dell’eretico e dell’erotico. Così a Castiglione Olona il condottiero magiaro Giovanni Hunyadi, che sconfisse e fermò l’armata turca a Belgrado (1456), ritorna in vita da un affresco di Masolino da Panicale; così come l’arte musicale di Mozart, Schumann, Liszt, Rossini, Poulenc e Henry Cowell, performata in modo memorabile dal pianista Antonio Ballista il 17 novembre del 2009 alla Casa della Poesia di Milano, torna sulle pagine del libro in forma di parole e l’aura della prosa di Henry Miller, figurato in versi, concorre a rivitallizzare, un panorama storico ed esistenziale oscillante tra lo stremato e il catastrofico.

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Ma dove sono le parole?

19 febbraio 2014

Scoprire la poesia da bambini
nelle periferie multietniche di Milano
con una maestra fuori dal comune

Ma dove sono le parole?
a cura di Livia Chandra Candiani con Andrea Cirolla
i Fiammiferi

«Sono le voci di bambini e bambine di nove e dieci anni. Molti vengono da Paesi stranieri, molti vivono qui scomodi. C’è un silenzio dietro queste voci, un silenzio che gli ha permesso di parlare. Questo silenzio è esposizione massima al rumore delle vite degli altri. Di cosa si fidano i bambini? Perché decidono di poter dire? Si fidano del silenzio di indirizzi, di indicazioni, di giudizi, si fidano del non sapere prima, si abbandonano al viaggio insieme. Per mano. Senza rete».

Il silenzio mi passava tra le vene / sembra infinito il silenzio. Sono le parole di un poeta. Ma ha nove anni e forse nemmeno frequenta più la scuola. Eppure proprio a scuola ha imparato a comporre versi, dopo aver incontrato una strana maestra, diversa da tutte le altre. Una maestra che sa seminare bene e coltivare il bene. Si chiama Chandra Livia Candiani, scrive una poesia tra le più significative oggi in Italia e da otto anni conduce seminari di poesia in diverse scuole elementari di Milano. Questo libro raccoglie la sua esperienza e una selezione delle poesie dei circa 1.400 studenti che hanno partecipato ai suoi seminari.

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Beppe Severgnini, Corriere della sera, 24 dicembre 2015

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Piccoli Poeti di Periferia
Beppe Severgnini, italians.corriere.it, 24 dicembre 2015

Nulla di ciò che hanno scritto i bambini, assicura il curatore, è stato corretto o modificato. E come avrebbe potuto.

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Simone di Biasio “Giornalismo po.etico”

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L’attimo fuggente dei bambini poeti
La poesia come mezzo per sbocciare e crescere, per portare la parola viva, per fare i conti con realtà distanti da noi. Così Chandra Livia Candiani guida i bambini attraverso questa esperienza linguistica
di Renato Minore

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La donna che insegna ai bambini di periferia a diventare poeti
La prima volta è stata nel 2006, Chandra non era più andata a scuola da quando era finito il suo obbligo. E ancora aveva in mente quei temi che le venivano restituiti con le scritte in blu “fuori tema” a volte anche “gravemente fuori tema”. Prima Chandra Livia Candiani – oggi poetessa – si era sentita spesso fuori posto, lontana da quello che le chiedeva il resto del suo mondo. Forse è per questo che anni dopo, al suo ritorno nei seminari che tiene nelle scuole elementari della periferia milanese, è piaciuta tanto ai bambini. Perché per un po’ è stata una di loro.
“I bambini che ho incontrato io – spiega -, sono bambini mondiali, cioè che vengono dai paesi più diversi del mondo, spesso bambini in fuga o figli di genitori in fuga. Per loro le parole sono un bisogno, una fame di non saper dire solo le cose della sopravvivenza ma anche come si sta dentro di loro. Non è facile partecipare a un seminario di poesia, bisogna accettare di non sapere niente, per questo i più bravi a scuola hanno più difficoltà perché hanno più paura a lasciar cadere i risultati, le sicurezze, i luoghi protetti. Gli asini invece corrono liberi. Spesso dentro a un asino c’è un poeta addormentato e sfiduciato e io cerco di scovarlo con delicatezza. Mi sembra che tutto stia nel vedere i bambini e le bambine più invisibili di tutti. Io sono stata una di loro, così mi è facile notarli per primi”.
Grazie alla perseveranza di Andrea Cirolla, il lavoro di Chandra Livia Candiani e dei suoi piccoli poeti è racchiuso anche in un libro. “Le poesie dei bambini hanno circolato a lungo solo oralmente –racconta Cirolla, curatore editoriale del libro -: capitava che Chandra le leggesse in casa sua oppure al telefono. A un certo punto, saranno stati cinque anni fa, le ho proposto di pubblicarle: mi oppose un no categorico, per un istinto di protezione verso i bambini. Ho accettato la sua scelta, ma non mi sono dato per vinto, così, insisti e insisti, sono riuscito a convincerla. Sono poesie tutt’altro che accomodanti, direi che sono l’esatto contrario, che sono scomode, non addomesticate”.
Come si riesce ad avvicinare i bambini alla poesia?
Piano piano ho creato un mio piccolo metodo che condivido solo con i bambini, delle avventure per andare in cerca e sostare un po’ nel luogo della poesia, perché anche la poesia come l’infanzia è un luogo, credo. Ma quello che conta è che, ogni volta che entro in una classe, non so cosa succederà, non vado con idee fisse e programmi rigidi, ma con il tremito dell’apprendista e con la passione di una vita intera devota alla poesia. I bambini credono ancora in una promessa, una promessa che non ha un contenuto preciso, ma chiunque arriva e fa una faccia da promessa, ha parole di promessa, sorrisi di promessa, è accolto con gioia immensa, perché hanno tanto bisogno di credere nel mondo.
Oltre al libro, il progetto quali risultati ha portato?
Non saprei, alcune maestre gentili mi hanno voluto far sapere che i bambini grazie alla poesia sono cresciuti, si sono aperti, come un po’ sbocciati, altre mi hanno detto che hanno scoperto nei loro scolari dei tesori nascosti. Io ho perso il posto a scuola. Ma mi hanno chiamato altre scuole, scelgo quelle con tanti migranti, con mondi diversi, perché allora la poesia è una necessità, mette un po’ di terra sotto i piedi, ti dà il senso di una continuità dell’anima anche se tutto è cambiato. La poesia porta a scuola la parola viva, quella che dice le cose che di solito sono fuori scuola. Quand’ero piccola, ho scritto spesso temi che venivano valutati con una scritta blu ‘fuori tema’ o perfino: ‘gravemente fuori tema’. Era una frustrazione tremenda. Mi faceva sentire fuori mondo, fuori gente, eppure è proprio questa ferita che adesso mi aiuta a incontrare chi è letteralmente fuori mondo, fuori patria.
In qualche modo i bambini quindi hanno aiutato anche lei?
Di sicuro, questo lavoro a me ha portato la sensazione di essere utile, mi sento meno tagliata fuori dalla città, più in contatto con la realtà viva della nuova faccia di Milano, una città che adesso, con tanti mondi e persone diverse, mi piace molto di più, mi fa sentire meno sola. E poi da sempre io chiedo a me stessa e alla mia ricerca parole che raggiungano, che tocchino gli altri, che li sveglino o li cullino, come strette di mano. Paul Celan diceva: “Non vedo alcuna differenza tra una poesia e una stretta di mano.” Lo dico spesso ai bambini e loro sorridono tantissimo.
Quale importanza può avere la poesia nella vita delle persone?
Certe volte, dico ai miei scolari provvisori: “Se i poeti facessero sciopero, forse all’inizio non se ne accorgerebbe nessuno, ma se la poesia finisse per andarsene dal mondo, non sopravvivremmo.” Fedi, 8 anni mi ha detto: Vorrei non dimenticare mai queste lezioni per il mio desiderio infinito. Ecco la poesia contribuisce a sfamare il nostro desiderio infinito.
[di Nicoletta Moncalero – L’Huffington Post]

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